In una banda per non sentirsi inferiore


Sono arrivato in Italia che avevo dieci anni. Mia mamma era venuta in questo paese per lavorare tre anni prima di me. Io vivevo con i nonni. Mio padre si faceva i fatti suoi e avevo scoperto anche che tradiva mia mamma. Per me è stato un colpo secco. Non sono riuscito a perdonarlo, del resto, da quando sono in Italia non telefona quasi mai. Eppure mia mamma aveva sempre mandato soldi a casa in Ecuador anche per lui. 
Ero contento di ritrovare mia madre, ma non è stato comunque facile, non lo è credo per tutti lasciare la terra in cui sei nato e cresciuto. Ho dovuto lasciare i miei nonni, i miei zii, i miei amici a cui ero molto legato. Ero molto bravo a scuola e improvvisamente mi sono trovato in forte difficoltà. Non sapevo la lingua e all’inizio tutti mi hanno accolto bene, avevo tutti i compagni intorno, volevano insegnarmi a parlare e a me, confesso, dava un po’ fastidio. Poi la novità è finita e, pian piano si sono allontanati. Oggi che ho 19 anni, capisco perché. Ero straniero, ero povero, non  avevo i vestiti firmati, vivevo solo con mia mamma che faceva le pulizie, vivevo in una casa piccola. I miei compagni stavano tutti meglio di me: avevano una casa grande, macchine, cellulari super.  In più erano tutti sempre molto impegnati: facevano nuoto, tennis, danza, inglese, tedesco… Avevano un’agenda piena di impegni. Bisognava chiedere l’appuntamento per poterli vedere ed io ci rinunciavo. Ogni tanto qualcuno mi invitava a casa sua, ma io mi sentivo fuori posto. In Ecuador ero abituato che si usciva per strada e si giocava tutti insieme ogni pomeriggio. Poi si andava a casa di tutti, senza chiedere il permesso: era normale così. La mia maestra diceva di me che ero molto bravo a scuola, ero tra i migliori. 
Arrivato in Italia, mi sono sentito un perfetto cretino. Dovevo ricominciare tutto. Avrei accettato di faticare, volevo bene a mia mamma, sapevo quanti sacrifici aveva fatto per me e mio fratello. Ma non accettavo di sentirmi umiliato. Le difficoltà sono cominciate soprattutto alle medie. Sapevo parlare bene, ma provate voi dopo un anno di permanenza in un paese a leggere e capire un libro di scienze, di storia, di geografia, con tutti termini tecnici! Nessuno ha tenuto conto di questo e mi davano tante pagine da studiare come tutti gli altri. E così ecco tanti brutti voti e relativi commenti: sei un fannullone, non ti impegni, non hai nessuna voglia, etc, etc. E così è stato: la voglia mi è passata.
Ho trovato amici stranieri come me e con loro stavo sulla strada, eravamo quasi una banda. All’inizio non facevamo nulla di male, poi abbiamo cominciato a fare delle bravate e così via. Tutto il giorno senza fare nulla di serio. Non solo, abbiamo cominciato a minacciare ragazzini più piccoli e ci sentivamo importanti. In realtà, quando tornavo a casa, non ero contento. Sapevo di sbagliare, ma mi sembrava di non avere alternative. Avrei potuto lasciare la compagnia, ma la solitudine mi faceva ancor più paura. Poi vedevo che i ragazzi, che prima non mi guardavano neanche, hanno cominciato a guardarmi con più rispetto: forse avevano paura di me e della mia banda. Non so. Ma non mi sentivo più, come si dice, “uno sfigato”.
Intanto mia mamma era sempre più preoccupata, ma aveva tanto da lavorare. Mi  mandava di giorno da mia zia che stava a casa, ma io uscivo lo stesso. La sera erano sempre discussioni.
In terza media è arrivata una nuova insegnante di italiano. Ho capito che era diversa dagli altri. Si interessava a noi, alle nostre storie, ma io ero diffidente, non mi piaceva parlare dei fatti miei. 
Un giorno ci ha visto minacciare un bambino di prima. Mi ha preso da parte e mi ha detto: “Volete sentirvi forti picchiando un bambino più piccolo di voi? Ma mi spieghi perché?”.  Subito non ho saputo cosa dire, poi ci ho pensato e ho capito che in loro vedevo la debolezza che nascondevo e non lo sopportavo. A volte anche solo una frase, detta nel modo giusto, ti fa pensare. Il mondo è di chi è forte, mi dicevo e crescevo così. 
Oggi che ho 19 anni sono più responsabile, ma ho perso anni davvero importanti. Lavoro come apprendista meccanico, perché mi piacciono i motori. Rimpiango però di non aver continuato a studiare. Forse se fossi stato aiutato di più o fossi rimasto in Ecuador, chissà. Ma a cosa serve farsi queste domande?