Non cerchi di cambiarmii, tanto sono fatto così

Nino era arrivato in  prima media con quell’atteggiamento di sfida che contraddistingue tutti quei ragazzi che sembrano desiderare entrare nella scuola non tanto per imparare e costruirsi un futuro, ma per esibire la loro forza e la loro “superiorità”. «Non cerchi di cambiarmi», mi aveva detto nei primi giorni, «tanto sono fatto così. Quando mi salta la mosca al  naso non sento ragione. Se qualcuno mi fa qualche torto, peggio per lui».
Ad ogni osservazione che gli insegnanti gli facevano, reagiva violentemente; quando si prendevano provvedimenti, reagiva con forza. «Ce l’avete sempre con me…». Io non gli davo note, né lo mandavo dalla preside, ma ugualmente ero caduta nella sua trappola.
Accettavo le sfide che ingaggiava e mi mettevo al suo livello rispondendo con lo stesso tono alle sue provocazioni. Il risultato era che a volte vincevo e riuscivo a farlo tacere e a ritirarsi, ma ugualmente non lo aiutavo ad uscire da quel mondo che si era costruito come una trincea, né lo aiutavo a sperimentare altri modi possibili di essere.
Un giorno mi era capitato di entrare in classe mentre si stava scontrando con un mio collega. Mi sono fermata sulla porta ed ho osservato lo svolgimento della scena.
Il professore alzava la voce, lui ribatteva tenendogli testa. Il professore gli metteva una nota sul registro. Un cliché che si ripeteva ormai in modo quotidiano. Osservai il suo volto, era arrabbiato e nello stesso tempo compiaciuto. Non abbassava mai lo sguardo, ogni tanto buttava un occhio sui compagni per mostrare loro quanto fosse coraggioso. I compagni in effetti assistevano alla scena con un certo interesse. Il tutto si concluse con il professore che uscendo dalla porta mi salutò dicendo: «È sempre il solito, non si smentisce mai!».
Quando fui sola con la classe vidi che Nino manteneva quell’atteggiamento di sfida. Capii che non dovevo entrare nel suo gioco. Averlo osservato dall’esterno senza essere implicata nello scontro in modo diretto, mi aveva aiutata a capire che lui ci attirava nella trappola, sul terreno su cui si era allenato ormai da tanto tempo e che sapeva gestire bene dal suo punto di vista. Lui si aspettava (e a ragione) che io sarei intervenuta sul suo atteggiamento col professore, invece cominciai a far lezione senza dire nulla e questo, lo vidi subito, lo spiazzò.
Ho proposto ai ragazzi di parlare insieme dei sentimenti, di quale significato loro dessero a questa parola. Le mani si sono subito alzate ed abbiamo iniziato a discutere. Nino taceva e si isolava dagli altri disegnando e ostentando un chiaro disinteresse. Sperava in un mio cedimento, ad un richiamo alla sua attenzione.  Continuai a far intervenire i compagni e la discussione si infervorava. Cominciarono ad elencare cosa si potesse intendere per sentimento, a far esempi su cosa si provasse per ognuno di essi e via dicendo. Poi con un tono molto pacato e dolce, mi rivolsi a Nino e gli chiesi se non avesse proprio nulla da dire. Lui, continuando a disegnare, mi disse che erano cose da femminucce. Gli ho chiesto se si sentiva arrabbiato e lui mi rispose di sì. Anche la rabbia è un sentimento, gli feci presente. Ha alzato la testa sorpreso. Ho continuato a parlare della rabbia con tutti gli altri. Dopo un po’ ha cominciato a chiedere la parola. I suoi primi interventi erano ancora provocatori. Io lo lasciavo parlare, furono pian piano i compagni a rispondergli, a fargli domande, a chiedergli perché fosse sempre così arrabbiato. Perché è così, rispose. Sono fatto così. Si può cambiare, gli dissi. No, non si può, rispose.
Da quel giorno il mio atteggiamento nei suoi confronti cambiò. Non ho mai più accettato la sfida. Ogni volta che lui provava a usare un tono aggressivo, gli chiedevo se gli avevo fatto qualcosa per rispondermi così, ma con un tono dolce e dispiaciuto.
No, mi rispondeva, lei non mi ha fatto niente. E allora perchè questo tono? È il mio, mi rispondeva. Quando ce la farai proverai a cambiarlo, gli dicevo.
Nino piano piano ha imparato a controllare i suoi impulsi aggressivi. Ha imparato a chiedere scusa spontaneamente quando si rendeva conto di non esserci riuscito. Io avevo capito che reagire con rabbia alla sua aggressività (come veniva istintivo) non dava il tempo a Nino di riflettere, pensare, prendere coscienza di cosa stava succedendo dentro di lui, ma semplicemente lo si confermava nel ruolo che si era dato.
Ero io l’adulto, ero io che per prima dovevo dimostrargli che era possibile l’autocontrollo e che era vantaggioso per tutti, anche per lui, avere una relazione in cui ci si voleva conoscere e mettere insieme le rispettive fragilità per superarle.
L’aggressività è il linguaggio della solitudine, di chi ha interiorizzato che non ci può essere scambio, aiuto, amicizia se non partendo dai rapporti di forza. Si vive sempre in trincea, una battaglia dietro l’altra fino a dimenticare chi veramente siamo.
Quando lo vedevo più tranquillo, parlavamo insieme. Non gli facevo prediche, non erano utili, ci era troppo abituato e lo mettevano di nuovo in difensiva. Gli chiedevo semplicemente come andava.
Il processo di cambiamento è stato lungo, faticoso. Più di una volta ricadeva nelle stesse trappole spinto sempre dagli amici fuori dalla scuola. Aveva tagliato due o tre volte, ma è sempre stato lui a venirmene a parlare: sapeva che non l’avrei punito, ma avrei cercato con lui “di aiutarlo ad aiutarsi”.  Coi compagni di classe si è tolto la maschera e tutti hanno scoperto un Nino generoso, buono, solidale. Di lui piaceva l’energia che ci metteva nel fare qualsiasi cosa.
La storia di Nino dubito che comunque abbia un lieto fine. Verso la fine del terzo anno è tornato il  Nino di prima, aggressivo e prepotente, chiuso agli altri e a se stesso. Non capivo cosa potesse essergli successo. Poi un giorno mi ha scritto su un testo: «Ho paura. Ora uscirò dalle medie, che ne sarà di me? Qui mi sentivo protetto, accompagnato. So che da solo non sono ancora in grado di farcela. Sento di essere debole. Fuori di qui ho solo amici che mi portano sulla cattiva strada e io non riesco a dire di no. Ora so che quelle strade non possono che portarmi a finir male».
Gli ho parlato, gli ho detto che avremmo potuto vederci ancora: «No, non so se verrò ancora a trovarla, so che forse le dovrei raccontare cose che non le farebbero piacere». Mi ha abbracciato, sembrava un bambino piccolo e gli è venuto da piangere, poi si è asciugato le lacrime e mi ha lasciato