IL VECCHIO MAESTRO di Vasilij Grossman (2)

Riprendiamo il racconto degli ultimi giorni del vecchio maestro Rozental, figura dell’universo letterario del grande scrittore russo Vasilij Grossman. Rozental è il maestro, l’amico che molti di noi vorrebbero avere, con la sua lucida visione delle cose, con la sua amorosa aderenza alla vita e la sua fede nella relazione umana, nonostante tutto. Dopo pochi giorni dall'arrivo dei tedeschi, gli ebrei della cittadina sono sottoposti al medesimo calvario di quelli dell’Europa occupata: una progressiva discriminazione, a cominciare dall'obbligo della fascia di riconoscimento al braccio, fino alla soluzione finale. In questo breve lasso di tempo, le persone ebree e non ebree si rivolgono al maestro per capire cosa stia accadendo, in primo luogo il medico e poi le donne del cortile, in lacrime. Il maestro riflette e spiega a Voronenko il suo punto di vista: la visione di una sorta di inferno dantesco retto non dalla giustizia divina, ma dall’impersonale e pianificata aritmetica della ferocia.

“[Gli ebrei] sono la loro fissazione. I nazisti hanno creato il lager paneuropeo globale, e perché i forzati rimanessero sottomessi hanno ideato una colossale scala di repressione. […] E più sei in basso, più il sangue, la schiavitù e il sudore aumentano. In fondo a questa gigantesca prigione a più piani c’è un burrone, e in quel burrone i nazisti faranno finire gli ebrei. Il loro destino deve servire a spaventare a morte l’intero, grande lager europeo, così che la peggiore delle sorti sia un sollievo se paragonata al destino degli ebrei. […] Non è odio, è aritmetica della ferocia”.          

Quando il medico gli porta, chiuso in una boccettina, il veleno, e gli confessa di aver capito quanto quella sostanza sia in quel momento per loro ebrei utile e necessaria, il maestro lo sorprende: gli dice che ha cambiato idea, che nelle ultime settimane è diventato ottimista. Ha osservato e riflettuto:

“Di una cosa soprattutto avevo paura, anzi ne ero terrorizzato, sudavo freddo al solo pensiero. E cioè che i calcoli dei nazisti risultassero esatti. […] I nazisti risvegliano i lati oscuri, rinfocolano l’odio, creano il pregiudizio. E’ questa, la loro forza. Dividi, sobilla et impera! […] Invece si sono sbagliati. Hanno tolto le briglie all'odio e ne è nata la compassione. Volevano destare la perfidia e la durezza di cuore, volevano offuscare la mente di grandi popoli. Mentre ho visto con questi occhi, l’ho provato sulla mia pelle, che la sorte spaventosa degli ebrei suscita nei russi e negli ucraini soltanto compassione e tristezza. Chi ha provato su di sé il giogo tremendo del terrore nazista è pronto ad aiutarci. Ci vietano di comprare il pane e il latte al mercato? Ci vanno le nostre vicine, a fare la spesa al posto nostro. A decine sono venuti a consigliarmi dove è meglio nascondersi senza correre pericoli. La vedo, la compassione di molti. E vedo anche l’indifferenza, certo. Ma mi è capitato di rado di notare che si gioisse della nostra sventura, tre o quattro volte in tutto. I tedeschi hanno sbagliato. I loro ragionieri hanno fatto male i conti. Il mio ottimismo avrà la meglio. Non mi sono mai illuso, io, so e ho sempre saputo che la vita è crudele”.

Nell'arco di qualche giorno ognuno sceglie il proprio destino: il medico e la sua famiglia si suicidano, il soldato senza una gamba Voronenko si procura due granate e le lancia contro la finestra del comandante, uccidendo i responsabili di quartiere, russi collaborazionisti, lì riuniti in attesa di disposizioni. Il suo cadavere verrà esposto alle porte della città. Il maestro sceglie di rimanere tra la sua gente e di vivere ogni giorno così come si presenta, istante per istante, senza perdere la capacità di riflessione, la lucidità e la cura premurosa per cui da sempre è conosciuto e stimato. Quando la moglie di Voronenko, appresa la notizia della morte del marito, si rifugia disperata nell'orto condominiale, è il maestro ad avvicinarla:

“Lei desidera restare sola, Dasa. Vado io a prendere l’acqua. Resti qui tutto il tempo di cui il suo cuore ha bisogno. Al piccolo Vitalij ho già dato un po’ di minestra fredda di miglio”. Lei fece segno di sì con la testa, senza fiatare, lo guardò e le uscì un singhiozzo. In tutta la città quell'uomo era forse l’unico a non essere cambiato affatto, a essere rimasto com'era sempre stato, premuroso, cortese, con i suoi libri, le sue domande – “La disturbo?” – e i suoi “salute” quando qualcuno starnutiva. Tutti gli altri, invece, avevano perso ciò che a lei piaceva di più, la cortesia, la delicatezza, la sensibilità. In tutta la città soltanto quel vecchio diceva “Come si sente, oggi?”, “La vedo pallida, questa mattina”, “Mangi qualcosa, che ieri sera non ha quasi toccato cibo”. Il mondo invece viveva di “Ah, la guerra! Ah, i tedeschi! Ah, qua va tutto a fuoco, tutto in malora”. E anche lei faceva come il resto del mondo, tirava avanti senza pensare al cuore”.

In una delle ultime notti, alla luce della candela, il maestro apre una scatola in cui conserva i suoi ricordi - pacchi di vecchie lettere e fotografie - e ripercorre l’intera sua vita, con la sensazione che gli antichi conflitti e i dolori più brucianti si siano ormai quietati. Nello stesso tempo nasce in lui una consapevolezza, un desiderio profondo di ricevere amore e cura.

“Quella notte per la prima volta non si curò di persone che non facevano più parte da tempo della sua vita; voleva con tutto il cuore una cosa soltanto, un prodigio che non era riuscito ancora a spiegare: l’amore. Non sapeva che cosa fosse. Da bambino, dopo la morte della madre, era cresciuto in casa di uno zio e da giovane aveva conosciuto l’amarezza del tradimento di una donna. Ma la sua vita era comunque un mondo di pensieri nobili e di gesti sensati. Avrebbe voluto che qualcuno gli dicesse: “Si metta uno scialle sulle gambe, viene aria dal pavimento e lei ha i reumatismi”. O che gli domandassero: “Perché è voluto andare a fare acqua al pozzo? Non lo sa che ha la sclerosi?”. Aspettava che una delle donne coricate sul pavimento gli si avvicinasse per dirgli: “Vada a dormire, le fa male stare al tavolo fino a tarda notte” Ma nessuno andava mai a rimboccargli le coperte perché stesse più caldo. Lo sapeva, sapeva che sarebbe morto in un’epoca in cui le leggi del male e della forza bruta in nome della quale si commettevano crimini inauditi decidevano della vita e determinavano le azioni non soltanto dei vincitori, ma anche di coloro che subivano il loro potere. Indifferenza e insensibilità erano i grandi nemici della vita. E a lui sarebbe toccato di morire in quei giorni tremendi.”

Un mattino giunge l’annuncio che tutti gli ebrei dovranno presentarsi l’indomani all'alba in una delle piazze della città per essere deportati in un ghetto dell’Ucraina occidentale occupata. “Per tutta la giornata i vicini andarono a chiedere consiglio al maestro, a domandargli che cosa ne pensasse di quella disposizione”. Tutti sanno, infatti, che nelle città dei dintorni in realtà gli ebrei destinati alla deportazione non sono stati fatti salire su alcun treno, ma sono stati condotti verso fossati e precipizi, paludi o vecchie cave di pietra. E da lì nessuno è mai tornato. “Sapevano, intuivano che cosa li aspettava. Ma in cuor loro non ci credevano, troppo terribile appariva lo sterminio di un popolo intero” […] Il vecchio maestro Rozental non parlava, li ascoltava e pensava che aveva fatto bene a non prendere il veleno. Aveva passato la vita con quella gente e con loro avrebbe passato anche le ultime, amarissime ore. Ogni ebreo, che si è recato a casa del maestro per discutere del significato di quella disposizione, matura grazie alle parole scambiate con gli altri e il maestro la propria scelta rispetto alla probabile morte imminente. Quando uno di loro dice: “Una cosa è certa. Se dovrò morire non morirò da pecora”, il maestro approva calorosamente: “Bravo, lei ha detto una cosa giusta”. Ognuno declinerà a suo modo questo morire “non da pecora”. La scelta del maestro sarà ancora una volta quella della lucidità e dell’amorevole cura, della condivisione fino alla fine del destino della sua gente, e in modo inaspettato gli sarà data in ultimo la grazia della reciprocità, nel dono delicato e semplice, di una profondità sconvolgente, di cui una piccola bimba sarà capace.
Il fabbro, quando la colonna svolterà dalla strada dirigendosi verso il burrone, griderà in ebraico “Gente, me ne vado!”, darà un pugno al soldato accanto e prima di essere ucciso cercherà di usare il mitra contro gli altri soldati. Nella confusione la piccola Katja, che è stata ospitata a casa del maestro con la madre e la nonna negli ultimi giorni, perde di vista le due donne e si attacca alla giacca del vecchio maestro.

“Il vecchio maestro la prese in braccio a fatica, le avvicinò le labbra all'orecchio e disse: “Non piangere, Katja, non piangere”. E con il braccio attorno al collo di lui, Katja rispose: “Non sto piangendo, maestro”. Il vecchio faceva fatica a reggerla, gli girava la testa, gli fischiavano le orecchie, gli tremavano le gambe per quel tragitto lungo e inconsueto, per la tensione straziante delle ultime ore”. Di fronte al burrone in cui, a gruppi di quindici, gli ebrei venivano portati a morire, “il vecchio maestro ansimava, ma continuava a tenere in braccio la piccola Katja. Pensare a lei lo distraeva. “Come posso tranquillizzarla? Come posso illuderla?” pensava, e lo prese una tristezza infinita. Neanche in quell'ultimo istante c’era qualcuno a sorreggerlo, a dirgli le parole che voleva sentire, che bramava da una vita, più di tutta la saggezza dei libri sulle grandi idee e sulle grandi imprese dell’uomo. La bambina si girò verso di lui. Il suo volto era sereno, era il volto pallido di un adulto pieno di compassione partecipe. E nel silenzio improvviso che era sceso il vecchio sentì la sua voce: “Maestro,” disse “non guardare da quella parte, se no ti spaventi” e come una madre gli coprì gli occhi con le sue manine.                    
      Chiara
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