Ancora sulla valutazione

Il nostro blog  è cominciato con un post che riporta la domanda di un ragazzo di terza media: A me adesso chi ci pensa?  Una domanda reale, fatta da un bambino vero ad un insegnante che aveva voglia di ascoltarla. E' da questa domande verbalizzata o no che ogni insegnante dovrebbe partire per trovare il senso e il percorso del suo insegnamento.
Se non facciamo risuonare dentro di noi questo appello e quindi non ce ne assumiamo la responsabilità e non diamo una risposta, vuol dire che insegnando non abbiamo in mente i bambini, ma qualcosa a cui i bambini si devono adeguare. Veniamo meno quindi a quel compito indicato dalla Zambrano: "il maestro ha da essere colui che apre alla possibilità".
Non dobbiamo mai dimenticare che qualsiasi bambino, di qualsiasi estrazione sociale o provenienza si chiede "A me chi ci pensa", e se la sua risposta sarà "nessuno", vorrà dire che non abbiamo assolto il nostro compito di insegnanti e di adulti. 

"A me adesso chi ci pensa?" è una domanda la cui risposta sta alla base di ogni relazione educativa degna di questo nome. E' una domanda a cui non è difficile rispondere: il bambino vuole avere la certezza che noi siamo lì anche per lui, che anche lui troverà spazio nella nostra mente e nel nostro cuore, qualsiasi sia la situazione in cui lui si trova.
A conclusione di ogni anno scolastico, come un rituale sempre uguale a se stesso, si parla di valutazione, di esami, di prove finali. E' serrata in questo periodo la discussione sugli esami di terza media: prove in più, prove in meno, più Invalsi, meno Invalsi...
Ma a quella domanda in troppi casi nessuna risposta. Quella domanda non parte dagli esami, ma sta a monte di tutto un processo che può aiutare o ostacolare la crescita di un bambino. Discutere di cambiare gli esami è come costruire una casa partendo dal tetto, condizionandone tutta la costruzione e pretendendo che tutte le case siano costruite nello stesso modo, eludendo o escludendo la diversità, la molteplicità, la complessità...
Perché sottoporre tutti i bambini allo stesso tipo di prova? perché si pretende di ottenere risultati uguali da situazioni diverse. Se non si risponde bene ad un test, nel sentire comune, il colpevole è o il bambino che non ha lavorato come avrebbe dovuto o l'insegnante che non ha fatto bene il suo lavoro.
Non c'è nessuna attenzione per la situazione in cui si trovano a lavorare e vivere bambini ed insegnanti. Come conseguenza di questo atteggiamento c'è la preoccupazione di molti insegnanti di pensare allo svolgimento dei programmi in funzione di quelle prove e non della crescita e della maturazione del bambino a partire da quello che è e dalle sue potenzialità. 
E dopo i test, che cosa succede? Quali deduzioni e ragionamenti ne scaturiscono? In funzione di quale scuola? Per quale tipo di formazione? Quale mentalità si diffonde? Quale diventa l'insegnante bravo e quello che non lo è? Una scuola è migliore di un'altra su quali parametri?
Porci queste ed altre domande vuol dire non dimenticare quel bambino di cui abbiamo parlato, che ci invita ad affrontare con lui le sue difficoltà, a sostenerlo nei suoi passi incerti, a non farlo sentire solo, ad aiutarlo a trovare la sua strada, ad entrare con lui nel suo labirinto per trovare il suo filo d'Arianna, a non perdere nei discorsi imperanti della statistica l'unicità che è in tutti noi.
Costanza, Emilia e Maria