Scuola e democrazia


Non si troverà costituzionalista, che passando in rassegna gli organi supremi che danno alla nostra Costituzione la sua fisionomia caratteristica, senta il bisogno di menzionare tra essi la Scuola: la Scuola resta in secondo piano, nell’ordinamento amministrativo (nell’ordinaria amministrazione, si direbbe), non sale ai vertici dell’ordinamento costituzionale. E tuttavia non c’è dubbio che in una democrazia, se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la Scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale. Il Parlamento consacra in formule legali i diritti del cittadino, la Magistratura e la Corte costituzionale difendono e garantiscono questi diritti; la coscienza dei cittadini è la creazione della Scuola; dalla scuola dipende come sarà domani il Parlamento, come funzionerà domani la Magistratura: cioè quale sarà la coscienza e la competenza di quegli uomini che saranno domani i legislatori, i governanti e i giudici del nostro paese. La classe politica che domani detterà le leggi o amministrerà la giustizia, esce dalla Scuola: tale sarà quale la scuola sarà riuscita a formarla. Che la classe dirigente sia veramente formata, com'è ideale democratico, dei migliori di tutte le classi, in modo che da tutti gli strati sociali, anche dai più umili, i giovani più idonei e i più meritevoli possano salire ai posti di responsabilità, dipende dalla scuola, che è il vaglio dei cittadini di domani.
Sembrano parole di oggi, tanto suonano ancora attuali, eppure risalgono a più di cinquant'anni fa. Sto leggendo in questi giorni Lo stato siamo noi, fresco di stampa, raccolta di scritti e discorsi di Piero Calamandrei che coprono un decennio, dal 1946 al 1956.
Non ho potuto fare a meno di soffermarmi su questo breve testo, leggerlo e rileggerlo, meditarlo in tutta la sua forza e modernità, disperandomi per lo stato in cui versa oggi la nostra scuola.
Proprio per questo, tra tutti i rami della amministrazione, quella scolastica propone i problemi più delicati e più alti: per risolvere i quali non basta essere esperti di problemi tecnici attinenti alla didattica, alla contabilità o alla edilizia, ma occorre soprattutto avere la consapevolezza dei valori morali e psicologici che si elaborano nella scuola: dove si creano non cose, ma coscienze; e, quel ch'è più, coscienze di maestri che siano capaci a lor volta di creare coscienze di cittadini.
Dopo un breve e lontano passato di insegnante precaria, oggi vivo i problemi della scuola negli uffici di segreteria, nei quali ci scontriamo quotidianamente con l'ottusità e la farraginosità della burocrazia, malgrado il tanto sbandierato snellimento della pubblica amministrazione, con i mezzi sempre più scarsi e le risorse sempre più limitate, affrontando quotidianamente tutti i problemi che devono essere in qualche modo risolti perché la didattica e la vita scolastica degli insegnanti funzionino al meglio. E diventa ogni giorno più difficile, allora non si perde occasione qui a Roma per muoversi, protestare, farsi sentire, fin sotto le scale del Ministero. Però sempre più spesso tra i docenti, i genitori e il personale ATA aumentano lo sconforto, la stanchezza, la delusione, i dubbi. Ci si interroga su quanto possa essere davvero utile continuare a protestare, sbattendo ogni volta contro una sorta di muro di gomma, strappando misere vittorie che tali non dovrebbero essere considerate perché si tratta dei diritti degli alunni alla formazione, dei diritti dei disabili alla dignità di studenti al pari degli altri.
Per riformare le leggi scolastiche bisogna innanzitutto conoscere perfettamente i labirinti complicati e frammentari della legislazione vigente, e arrivare a discernere, in questa sovrapposizione confusa di ordinamenti, quali sono gli ingranaggi che occorre rinnovare e quelli che si possono conservare; ma, per rendersi conto di questo, non basta conoscere i testi della legislazione scolastica come può fare uno studioso di manuali: per sapere come la scuola funziona, bisogna essere stati studenti e insegnanti: soprattutto insegnanti. Solo coll'insegnare si capisce che cosa contino in se stesse (e quel che occorre infondervi perché contino) le leggi che stabiliscono come si deve insegnare.

Chi decide per il futuro della scuola pubblica non la conosce, non l'ha vissuta, non l'ha sofferta e i risultati di tale ignoranza, nell'accezione originaria del termine, sono sotto gli occhi di tutti, giorno dopo giorno.
Anche quando si trovi un ministro pieno di buone intenzioni, il quale si proponga di ridurre la scuola a essere veramente creatrice della democrazia come la Costituzione vorrebbe, è difficile che esso abbia approfondita conoscenza dei problemi tecnici, attinenti a tutti gli ordini di scuole, che occorre affrontare per avvicinarsi a questo ideale: per la tecnica, gli uomini politici debbono rimettersi ai burocrati; e i burocrati, assai spesso, sono conoscitori di congegni amministrativi, ma non di anime… Così, anche se vi sono tra gli uomini politici alcuni che vorrebbero infondere alla scuola un'anima nuova corrispondente alla sua importanza costituzionale, la loro ispirazione generica si arresta e si disperde nella rielaborazione dei funzionari ministeriali: molti dei quali sono vissuti, fino a salire ai gradi più alti della gerarchia, senza mai aver conosciuto per esperienza propria la durissima missione dell'insegnante, al quale la società affida un compito forse ancor più difficile e decisivo di quello del giudice.

E mi riempie di un'immensa tristezza pensare che il divulgare i pensieri e le parole di Calamandrei possa costare, come è accaduto al preside del liceo classico D'Azeglio di Torino nel marzo scorso. Tristezza e scoramento.
(I brani citati sono tratti dalla prefazione di Piero Calamandrei alla raccolta postuma di scritti di Giovanni Ferretti, Scuola e democrazia, Einaudi, Torino 1956.)